Linguista e semioligia. Breve viaggio da Platone a Barthes via Bloomfield e Eco. Basi per comprenderne anche la struttura profonda in PNL.

26/04/2017 di Lorenza Dalloca

Il linguaggio

Gli antichi Greci meditarono intensamente sull’origine, la storia e la struttura del linguaggio. Nonostante essi limitassero le proprie osservazioni grammaticali ad una sola lingua, la propria, e le enunciassero attraverso una forma filosofica, a loro si deve gran parte delle nostre conoscenze tradizionali sull’argomento. Pur avendo compreso che le forme linguistiche mutano nel corso del tempo, gli antichi Greci diedero per scontato che la struttura della loro lingua incorporasse le forme universali del pensiero umano e dell’ordine cosmico, poiché non studiarono altra lingua che la loro.
Nel Cratilo, Platone (427-347 a.C.) tratta l’origine delle parole, ponendosi il problema se la relazione tra le cose e le parole che le denominano sia naturale e necessaria o il risultato di una convenzione umana. Questo dialogo dà una prima vaga idea dello storico dibattito tra gli analogisti, i quali sostenevano che il linguaggio fosse naturale, essenzialmente logico e regolare, e gli anomalisti, che negavano queste tesi e ponevano in rilievo le irregolarità della struttura linguistica. Gli analogisti credevano che l’origine e il vero significato delle parole potesse essere rintracciato nella loro forma, la cui indagine chiamarono etimologia. 4 L’immensa variabilità e imprevedibilità del comportamento umano rispetto al linguaggio hanno dato luogo a due teorie. Una prima teoria, definita mentalistica, è la più antica e suppone che “la variabilità del comportamento umano sia dovuta all’interferenza di un fattore non fisico, uno spirito, o volontà, o mente (in greco psyché da cui il termine psicologia) che è presente in ogni essere umano. Questo spirito, secondo la concezione mentalistica, è completamente differente dalle cose materiali e, di conseguenza, è soggetto a un tipo diverso di causalità, o forse, non lo è affatto.”5 La seconda teoria, detta materialistica (o, meglio, meccanicistica), suppone che “la variabilità del comportamento umano, compreso il linguaggio, sia dovuta solo al fatto che il corpo umano è un sistema estremamente complesso. Le azioni umane, secondo la concezione materialistica, fanno parte di sequenze causali esattamente simili a quelle che osserviamo, per esempio, nella fisica e nella chimica.”6 Un approccio in un certo senso più filosofico è invece introdotto da B.L.Whorf, il quale indaga il rapporto che intercorre tra linguaggio, pensiero e realtà. Egli, infatti, coglie la relazione tra il linguaggio e il pensiero umano, affermando che il linguaggio sia in grado di modellare i nostri pensieri più intimi. Questa tesi si pone perciò in conflitto rispetto a quanto sostenevano gli antichi Greci. Whorf introduce un nuovo principio di relatività sostenendo che non tutti gli osservatori sono portati dalle stesse evidenze fisiche a percepire la stessa immagine dell’universo, a meno che essi condividano un contesto linguistico simile, o differenti, ma che possano essere in qualche modo “calibrati”. Per “calibrazione” si potrebbe intendere, nel pensiero di Whorf, la possibilità di far corrispondere gli elementi di una lingua con quelli di un’altra, poiché esse condividono un modo simile di percepire la natura e l’universo. Le lingue indoeuropee posso essere, grosso modo, calibrate – inglese, francese, tedesco, russo, latino, greco e le altre; ma quando si tratta di cinese, maya e Hopi, la calibrazione diviene strutturalmente difficile, se non impossibile. I parlanti cinesi, ad esempio, analizzano la natura e l’universo in maniera differente rispetto ai parlanti occidentali.7 I Greci, quindi, diedero per scontato che dietro al linguaggio si celasse una universale,incontaminata essenza della ragione, condivisa da tutti i pensatori e credettero che le parole fossero il mezzo attraverso il quale tale luminosità di pensiero trovava espressione. Da ciò derivava, perciò, che un pensiero espresso in qualunque lingua potesse essere tradotto senza alcuna perdita di significato in un’altra lingua. Whorf pone una sfida a tale percezione ipotizzando che un cambiamento nel linguaggio possa trasformare il nostro apprezzamento del cosmo. Le principali ipotesi di Whorf possono essere così riassunte in una prima, la quale stabilisce che tutti i livelli più alti di pensiero dipendono dal linguaggio e in una seconda, la quale stabilisce che la struttura del linguaggio che una persona abitualmente usa, influenza la sua maniera di comprendere il proprio ambiente. L’immagine dell’universo cambia da lingua a lingua.8

4 L. BLOOMFIELD, Language, Holt, New York 1933 p. 6.
5 http://web.uniud.it/didattica/facolta/lettere/materiale-didattico/
6 L. BLOOMFIELD, op.cit., p.39.
7 B. L. WHORF, Language, Thought, and Reality, John Wiley & Sons, and The Technology Press of M.I.T., New York 1956
p. v.
8 B. L. WHORF, op.cit., p. vi.

Significato, significante e significazione

Il significato per Whorf (“meaning”) è “intimamente connesso con la linguistica: il suo principio è il simbolismo, ma il linguaggio è il più grande simbolismo dal quale gli altri simbolismi traggono l’esempio”.9 Bloomfield definisce il significato di una forma linguistica come “la situazione in cui il parlante si trova a pronunciarla e la risposta che suscita nell’ascoltatore”.10 Una rigorosa definizione scientifica del significato di ogni forma linguistica di una data lingua è però impossibile, poiché richiederebbe un’esatta conoscenza scientifica del mondo del parlante. In questo senso, è quindi possibile definire esattamente il significato di una forma linguistica quando esso ha a che fare con argomenti di cui abbiamo una conoscenza scientifica. Così, ad esempio, si possono definire i nomi dei minerali in termini chimici e mineralogici come si può dire che il significato scientifico della parola sale è cloruro di sodio (NaCl), e si possono definire i nomi delle piante e degli animali per mezzo dei termini tecnici della botanica e della zoologia, ma non esiste alcun modo preciso per definire parole come amore o odio. Coloro che aderiscono alla psicologia mentalistica ritengono che, prima che una certa forma linguistica venga pronunciata, si verifichi nel parlante un processo di tipo non fisico, quindi un pensiero, un concetto, un’immagine, un sentimento, un atto di volontà, e che l’ascoltatore subisca un processo mentale, equivalente o correlato, nel ricevere le onde sonore. In questo modo, il mentalista definisce il significato di una forma linguistica come “l’evento mentale caratteristico che si verifica in ogni parlante e in ogni ascoltatore, in collegamento con la produzione o la ricezione della forma linguistica in questione”. Il parlante che pronuncia la parola mela ha avuto l’immagine mentale di una mela, e questa parola evoca un’immagine simile nella mente dell’ascoltatore. Il linguaggio, per il mentalista, è l’espressione di idee, sentimenti e volizioni. Al contrario, il meccanicista crede che immagini mentali e sentimenti siano termini popolari erroneamente usati per designare dei movimenti corporei, che, per quel che riguarda il linguaggio, possono essere divisi approssimativamente in tre tipi:

1) processi macroscopici, pressappoco gli stessi nelle diverse persone, e che avendo una certa importanza sociale, sono rappresentati da forme linguistiche convenzionali, come ho fame (ho sete, ho paura, mi dispiace, sono contento,ecc.);

2)secrezioni ghiandolari e contrazioni muscolari microscopiche che differiscono da persona a persona, e che, non possedendo un’importanza sociale immediata, non sono rappresentate da forme linguistiche convenzionali;

3)movimenti silenziosi degli organi vocali che non sono percepibili da parte di altre persone (“pensare in parole”).12

Roland Barthes in Elementi di semiologia approfondisce il concetto di significato mettendolo in relazione con quello di significante e successivamente di significazione. Si tratta di una prospettiva più accentuatamente linguistica rispetto alle precedentemente esaminate. Nella linguistica, infatti, la natura del significato ha dato luogo a numerose discussioni sul suo grado di “realtà”, le quali insistono concordemente sul fatto che il significato non è “una cosa”, ma una rappresentazione psichica della “cosa”. Saussure ha evidenziato la natura psichica del significato chiamandolo concetto, così il significato della parola bue non è l’animale bue, ma la sua immagine psichica. Gli stoici distinguevano la rappresentazione psichica, dalla cosa reale e dal “dicibile”; il significato, per loro, non era né la rappresentazione psichica, né la cosa reale, ma il “dicibile”. Né atto di coscienza né realtà, esso può essere definito solo all’interno del processo di significazione, in modo quasi-tautologico: è quel “qualcosa” che colui che impiega il segno intende con esso.13 Il significante, continua Barthes, è un relatum, ossia non si può separare la sua definizione da quella del significato. Il significante è un mediatore: la materia gli è necessaria, anche se non gli è però sufficiente e in semiologia anche il significato può essere mediato dalla materia delle parole. La materialità del significante costringe a distinguere materia e sostanza: la sostanza può essere immateriale (è il caso della sostanza del contenuto), mentre la sostanza del significante è sempre materiale (suoni, oggetti, immagini).14 Il segno è una porzione, una delle due facce di sonorità o visualità. La significazione può essere concepita come un processo; è l’atto che unisce il significante e il significato, il cui prodotto è il segno. Questa distinzione ha solo un valore classificatorio, in primo luogo, perché l’unione del significante e del significato non esaurisce l’atto semantico; in secondo luogo, perché per significare la mente non procede per congiunzione, ma per scomposizione. La significazione (semiosis) non unisce degli esseri unilaterali, non avvicina due termini, poiché significante e significato sono entrambi termine e rapporto ad un tempo. In Saussure il segno si presenta come l’estensione verticale di una situazione profonda: nella lingua, il significato è dietro il significante e non può essere raggiunto se non attraverso di esso. Secondo Hjelmslev, invece, c’è relazione (R) fra il piano d’espressione (E) e il piano del contenuto (C), vale a dire “E R C”.  In Lacan il significante (S) è globale, costituito da una catena a vari livelli (catena metaforica): significante e significato (s) si trovano in un rapporto fluttuante e non “coincidono” se non per certi punti d’ancoraggio; la sbarretta di separazione fra il significante e il significato rappresenta la rimozione del significato (S/s). Infine, nei sistemi non isologi (ossia quelli nei quali i significati sono materializzati attraverso un altro sistema), è lecito estendere la relazione sotto forma di una equivalenza, ma non di una identità.15 La significazione dipende dalla dominazione linguistica. Un oggetto (un indumento, uno spazio, un paesaggio) significa perché interviene una lingua che ne nomina il significante e il significato. Il significante, perciò, è il mediatore materiale del significato. Partendo dal presupposto che nel linguaggio umano la scelta dei suoni non è imposta dal senso stesso (il bue non implica necessariamente il suono bue, giacché questo suono è diverso in altre lingue), Saussure aveva preso in considerazione un rapporto arbitrario fra il significante e il significato. Secondo Benveniste, invece, arbitrario è il rapporto del significante e della “cosa” significata (del suono bue e dell’animale bue), ma per Saussure il significato non è “la cosa”, bensì la rappresentazione psichica della cosa (concetto). L’associazione del suono e della rappresentazione è il frutto di un tirocinio collettivo (ad esempio, l’apprendimento della lingua francese) e questa associazione-che poi è la significazione- non è arbitraria (nessun francese è libero di modificarla), ma necessaria. Perciò nella linguistica la significazione è immotivata, anche se solo parzialmente, infatti, fra il significato e il significante c’è una certa motivazione nel caso delle onomatopee. In generale, quindi, nella lingua il nesso fra il significante e il significato è contrattuale in via di principio, ma questo contratto è collettivo, inscritto in una temporalità lunga (Saussure dice che “la lingua è sempre una eredità”) e quindi in un certo senso naturalizzato. Si dirà, perciò, che un sistema è arbitrario quando i suoi segni sono fondati non per contratto, ma per decisione unilaterale: nella lingua il segno non è arbitrario ma lo è nella Moda; e si dirà che un segno è motivato quando la relazione fra il suo significato e il suo significante è analogica; si potrà quindi avere sistemi arbitrari e motivati e altri non arbitrari e immotivati.17 In conclusione, si può dire che ogni tentativo di stabilire il referente di un segno porta a definirlo nei termini di un’entità astratta che rappresenta una convenzione culturale. Il significato di un termine (e cioè l’oggetto che il termine ‘denota’) è un’ unità culturale. “ In ogni cultura una unità culturale è semplicemente qualcosa che quella cultura ha definito come unità distinta diversa da altre e dunque può essere una persona, una località geografica, una cosa, un sentimento, una speranza, una idea, una allucinazione”.18 Nel caso di altre unità culturali si può osservare come esse varino di ‘confine’ a seconda della cultura che le organizza. Un esempio tipico è quello della nostra “neve” che nella cultura eschimese viene risolta in quattro unità corrispondenti a quattro diversi stati fisici.


9 B. L.WHORF, op.cit , p. 42.
10 L. BLOOMFIELD, op.cit, p. 160.
11 L. BLOOMFIELD, op.cit, p. 164.
12 L. BLOOMFIELD, op.cit, p. 164.
13 R. BARTHES, Elementi di semiologia, Einaudi editore, Torino 1966 p.40.
14 R. BARTHES, op.cit., p.44.
15 https://archive.org/stream/AnnaM.LorussoSemiotica/Anna%20M.%20Lorusso%20-%20Semiotica_djvu.txt
16 S. TRAINI, Le basi della semiotica, Strumenti Bompiani, Milano 2013, p. 165.
17 R. BARTHES, op.cit., p.47.
18 SCHNEIDER, 1968 in U. ECO, Trattato di semiotica generale, Studi Bompiani, Milano 1978 p. 98.

Denotazione e connotazione

Barthes prosegue, quindi, la sua riflessione sulla significazione riprendendo la formula “E R C”. Ogni sistema di significazione comporta un piano di espressione (E) e un piano di contenuto (C) e la significazione coincide con la relazione (R) dei due piani. A questo punto, supponendo che un sistema E R C divenga a sua volta il semplice elemento di un secondo
sistema, che gli sarà così estensivo, si avranno due sistemi di significazione che si innesteranno l’uno nell’altro e che nondimeno saranno “sganciati”. Lo “sganciamento” dei due sistemi può avvenire attraverso due modi diversi, a seconda del punto di inserimento del primo sistema nel secondo:
1) il primo sistema ( E R C) diviene il piano di espressione o significante del secondo sistema, ossia (E R C) R C. Ciò si verifica nella semiotica connotativa di Hjelmslev: il primo sistema costituisce il piano di denotazione e il secondo sistema (estensivo al primo) il piano di connotazione. Perciò, un sistema connotato è un sistema il cui piano di espressione è esso stesso costituito da un sistema di significazione.19 Casi frequenti di connotazione, come avviene nella letteratura, sono costituiti dai sistemi complessi in cui il linguaggio articolato forma il primo sistema.
2) Il primo sistema (E R C) diviene, non il piano di espressione, come nella connotazione, ma il piano di contenuto o significato del secondo sistema, ossia E R (E R C). È questo il caso dei meta-linguaggi: un metalinguaggio è un sistema in cui il piano del contenuto è esso stesso costituito da un sistema di significazione; o anche, è una semiotica che tratta di una semiotica.20
Barthes afferma poi che “in avvenire non potrà non imporsi una linguistica della connotazione, giacché la società sviluppa continuamente, a partire dal sistema primario, che il linguaggio umano le fornisce, dei sistemi secondi di senso, e questa elaborazione, talora palese, talora dissimulata, razionalizzata, è molto vicina a una autentica antropologia storica”.21 Dal momento che la connotazione è un sistema, essa comprende dei significanti, dei significati e il processo che unisce gli uni agli altri, vale a dire la significazione. I significanti di connotazione, detti connotatori, sono costituiti da segni (significanti e significati riuniti) del sistema denotato. Vari segni denotati possono, inoltre, riunirsi per formare un unico connotatore, se esso è dotato di un solo significato di connotazione. Ciò significa che le unità del sistema connotato non hanno necessariamente la stessa dimensione che quelle del sistema denotato; infatti, ampi frammenti di discorso denotato possono costituire una sola unità del sistema connotato (come nel caso del tono di un testo, composto da varie parole, e che tuttavia rinvia a un unico significato). La connotazione non esaurisce il messaggio: rimane sempre qualcosa di “denotato” e i connotatori sono sempre dei segni discontinui, “erratici”, naturalizzati dal messaggio denotato che fa loro da veicolo. Il
significato di connotazione ha un carattere generale, globale e diffuso: è, se si vuole, un frammento di ideologia. I significati comunicano strettamente con la cultura, il sapere, la storia, ed è attraverso di essi che, in un certo senso, il mondo penetra il sistema. “L’ideologia sarebbe insomma la forma dei significati di connotazione, mentre la retorica sarebbe la forma dei connotatori”.22 U. Eco approfondisce ulteriormente i concetti di denotazione e connotazione parlando di ‘sopraelevazione’ di codici, quando una significazione è veicolata da una significazione precedente. Infatti, “ciò che costituisce una connotazione in quanto tale è il fatto che essa si istituisce parassitariamente sulla base di un codice precedente e che non può essere veicolata prima che il contenuto primario sia stato denotato”.23 La differenza tra denotazione e connotazione è dovuta, quindi, al meccanismo convenzionante del codice, indipendentemente dal fatto che le connotazioni possano apparire di solito meno stabili che le denotazioni. La stabilità è relativa alla forza della convenzione codificante, ma una volta stabilita la convenzione, la connotazione diventa funtivo stabile di una funzione segnica il cui funtivo soggiacente è un’altra funzione segnica. Si può quindi definire un codice connotativo come sottocodice, nel senso che si basa su un codice-base. Inoltre, si può supporre che una convenzione sociale, una educazione scolastica, un sistema di aspettative profondamente radicato nel patrimonio di opinioni condiviso dal parlante, lo portino a correlare il primo codice (denotativo) anche con un terzo sistema di contenuti. In questa maniera, un terzo sistema è arroccato sul primo, così che il primo consente alla funzione segnica che istituisce di intrattenere un doppio rapporto connotativo. Se poi il parlante, in possesso del triplice codice, decida di privilegiare l’una o l’altra connotazione, o addirittura, aggiunga connotazioni emotive accessorie al contenuto ricevuto riguarda la pragmatica. Nella discussione logica contemporanea, al termine pragmatica
vengono attribuiti diversi sensi: 1) l’insieme delle risposte idiosincratiche elaborate dal destinatario dopo aver ricevuto il messaggio; 2) l’interpretazione di tutte le scelte semantiche offerte dal messaggio; 3) l’insieme delle presupposizioni implicate dal messaggio; 4) l’insieme delle presupposizioni implicate nel rapporto interattivo tra emittente e destinatario.24
Passando ad una teoria della produzione segnica, in cui è consentito rifarsi alla nozione di referente, si può dire che “una denotazione è una unità culturale o proprietà semantica di un dato semema che è al tempo stesso una proprietà culturalmente riconosciuta del suo possibile referente”; mentre, “una connotazione è un’unità culturale e proprietà semantica di un dato semema, veicolata dalla denotazione precedente, e non necessariamente corrispondente a una proprietà culturalmente riconosciuta del suo possibile referente”.25 Bloomfield rispetto al concetto di connotazione rimane più generico, contribuendo in ogni caso a renderne l’idea più nitida. I significati mostrano la loro instabilità nella presenza di valori supplementari, appunto, detti connotazioni. In questo senso, il significato di una forma per un dato parlante è il risultato delle situazioni in cui ha udito la forma stessa. Il suo uso può derivare da quello convenzionale. A tali “deviazioni” personali si ovvia dando definizioni esplicite del significato ed è questo uno degli usi principali dei dizionari. Nel caso di termini scientifici si tenta di mantenere il significato privo dei fattori connotativi, sebbene talvolta non sia possibile. Ad esempio, per molti il numero tredici è fortemente connotato.26
Le varietà di connotazione, inoltre, sono innumerevoli e indefinibili e non possono essere nettamente distinte dal significato denotativo. “Ogni forma linguistica ha un proprio sapore connotativo per l’intera comunità linguistica, il quale viene a sua volta modificato, e persino capovolto, nel caso del singolo parlante, dalle connotazioni che la forma ha acquistato per lui, nella sua particolare esperienza”.27
Da un punto di vista enciclopedico, invece, al termine connotazione corrisponde:
• K.BROWN, The Encyclopedia of Language and Linguistics (s.v. Connotation): “[…] Le connotazioni di un’espressione linguistica sono effetti semantici che emergono dalla conoscenza enciclopedica della sua denotazione (o referente) e inoltre dalle esperienze, dalle credenze, e dai pregiudizi rispetto al contesto nel quale l’espressione è tipicamente usata. Le connotazioni variano a seconda dei contesti e delle comunità linguistiche indipendentemente dal senso, dalla denotazione e dal referente. […] La connotazione di un’espressione linguistica è chiaramente distinta dal suo senso, dalla sua denotazione, e dal suo referente. Identificare le connotazioni di un termine significa identificare l’atteggiamento della comunità nei suoi confronti […]”.28
• Enciklopedija Krugosvet (s.v. Konnotacija): La connotazione è un tipo di informazione lessicale che accompagna il significato della parola. A volte è chiamata anche associazione semantica. La connotazione di una parola rappresenta quel segno dell’oggetto che viene indicato, il quale, pur non essendo condizione necessaria per l’uso della data parola, è stabilmente legato con l’oggetto che viene indicato nella coscienza dei parlanti madrelingua. Ad esempio, in molte lingue europee alla parola che indica la volpe si attribuisce la connotazione di furbizia o perfidia. Ovviamente, questi segni non sono essenziali per la data classe di animali: affinché si chiami un qualche animale “volpe”nonvi è la necessità di verificare se sia furbo. Dunque, il segno della furbizia non sarà compreso nella definizione (interpretazione) di questa parola, ma non di meno la si associa stabilmente con essa nella lingua, e ciò conferma l’uso traslato della parola volpe rispetto a una persona furba. Le connotazioni rappresentano il giudizio assunto in una data collettività e fissato nella cultura di una data società rispetto all’oggetto indicato da una parola o rispetto a un fatto della realtà e riflettono le tradizioni culturali. Così, la furbizia e la perfidia sono caratteristiche abituali della volpe come il personaggio dei racconti sugli animali nel folklore di molti popoli. Una varietà di connotazioni legata alla parola è così chiamata informazione pragmatica, poiché non indica lo stesso oggetto o fenomeno del mondo reale, ma l’atteggiamento nei loro confronti, un certo sguardo su di essi. A differenza di altri aspetti, nell’informazione pragmatica, il rapporto e lo sguardo appartengono al parlante non come persona separata, ma come esponente di una comunità linguistica. Così, per esempio, la parola ronzino porta un’informazione pragmatica emozionalmente negativa sul rapporto del parlante come persona verso l’oggetto indicato dalla parola e usando questa parola rispetto alla parola cavallo, inevitabilmente esprimiamo un giudizio di disapprovazione nei confronti di esso. Contrariamente a ciò, il parlante, usando un lessema che ha una determinata connotazione, non esprime con esso il suo personale punto di vista sull’oggetto indicato; ad esempio, usando la parola volpe per indicare l’animale, non esprimiamo quell’opinione propria sulla furbizia della volpe. Non di meno però il legame tra la volpe e la furbizia è presente nella coscienza del parlante, che in questo ambito, nella psicologia sociale è detta “inconscio collettivo”. Altri esempi di connotazione sono i significati di testardaggine e ottusità per la parola asino o velocità e volubilità per la parola vento. Le connotazioni delle parole si rivelano in tutta una serie di casi appartenenti alla lingua o al discorso. Alle espressioni linguistiche della connotazione, vale a dire così fissati nel sistema della lingua, appartengono i significati traslati (il significato di persona testarda e/o ottusa per la parola asino), i paragoni abituali (ottuso come un asino), i significati delle parole derivate (ventoso nel significato di spensierato’), i significati dei fraseologismi (soffiò via come il vento, che indica la veloce scomparsa di qualcuno/qualcosa). Tra le espressioni oggettive delle connotazioni bisogna includere anche i casi del discorso, che spesso non si registrano nei dizionari e nelle grammatiche, ma si riproducono con sufficiente regolarità nel processo di generazione e interpretazione di un’esternazione di una data parola. Uno di questi casi è la relativa uniformità nell’interpretazione da parte dei parlanti madrelingua delle cosiddette costruzioni “pseudotautologiche” che hanno la forma X è X (ad esempio, un tedesco è un tedesco). In questi casi la ripetizione vuole enfatizzare la peculiarità che la comunità linguistica attribuisce stabilmente a quella data parola, in questo caso la puntualità e meticolosità attribuita al popolo tedesco. Le connotazioni delle parole sono però specifiche per ogni lingua. Ad esempio, la parola elefante nella lingua russa ha una connotazione di ‘pesantezza/goffaggine’, ‘stupidità’ (come un elefante in un negozio di porcellane), mentre in sanscrito in suo equivalente tradotto gadja ha una connotazione di ‘leggerezza’, ‘grazia’ (gadjagamini significa ‘andatura leggera’). In una stessa lingua, poi, parole vicine per significato possono avere connotazioni fortemente diverse, come dimostra lo specialista russo della semantica lessicale J.D.Apresjan con l’esempio delle diverse connotazioni della parola asino (‘testardaggine’, ‘ottusità’) e della parola mulo (‘molta prontezza e lavorare senza protestare’). L’imprevedibilità delle connotazioni rende necessaria la loro fissazione nei dizionari che aspirano all’interezza della descrizione che lega l’informazione alla parola.29

19 R. BARTHES, op.cit., p. 79.
20 R. BARTHES, op.cit., p. 80.
21 R. BARTHES, op.cit., p. 80.
22 R. BARTHES, op.cit., p.81.
23 U. ECO, Trattato di semiotica generale, Studi Bompiani, Milano 1978 p.83.
24 U. ECO, op.cit., p. 84.
25 U. ECO, op.cit., p. 123-124.
26 L. BLOOMFIELD, op.cit., p. 175.
27 L. BLOOMFIELD, op.cit., p. 178.
28 K. BROWN, editor-in-chief/The Encyclopedia of Language and Linguistics, Elsevier, Amsterdam 2006 (s.v. Connotation).
29 http://www.krugosvet.ru/enc/gumanitarnye_nauki/lingvistika/KONNOTATSIYA.html?page=0,0