L’approccio dialogico conversazionale per la comunicazione in classe.
Relazioni disfunzionali e utilizzo di A.T., musica, teatro e stoffe come tentativo di risoluzione.
Quando mi sono ritrovata ad insegnare per la prima volta in una prima elementare, digiuna di tutto l’appalto teorico, bagaglio di un buon counselor, ma “praticamente” pronta a riconoscere nell’altro da me, l’opportunità di crescita che il teatro mi aveva regalato con tutte le sue tecniche prettamente senso-esperienziali, mi sono meravigliata nel constatare come certe dinamiche comportamentali fossero già cosi precocemente e profondamente radicate.
Dopo un primo momento di incredulità, in una scuola che era già “BUONA”, come recitavano i programmi dell’1985 dove: “sostenere l’alunno nella progressiva conquista della sua autonomia di giudizio, di scelte e di assunzione di impegni”, mi sono lanciata, con tutti i dubbi che questo comporta, attraverso il processo di crescita che prima di tutto era stato mio, ad aprire certi giochi “disfunzionali” per ottenere un armonico apprendimento didattico, parte e non il tutto del fine ultimo dei suddetti programmi che, nel quadro dei principi affermati dalla costituzione, recitano ancora “La scuola elementare ha per suo fine la formazione dell’uomo…”.
Data la premessa, era lecito utilizzare ciò che era nel mio back ground culturale nel contesto scuola? E’ stato solo l’inizio della ricerca di tutte quelle modellizzazioni teoriche, in cui sistematizzare il mio percorso teatrale, che ho sentito necessario sostenessero la mia didattica e alla mia vita personale.
Ho cominciato a studiare, la letteratura dedicata alle relazioni disfunzionali fornita dalla Piattaforma Indire che mi ha dato quel permesso esistenziale che stavo cercando per poter mettere in pratica tutte le tecniche acquisite. In quel luogo virtuale mi sono sentita autorizzata, anzi incitata a continuare senza arrendermi, di fronte alle molteplici implicazioni emozionali che mettersi in gioco non solo didatticamente ma anche umanamente implica.
Oggi con la pubblicazione delle “Indicazioni strategiche per l’utilizzo didattico delle attività teatrali per l’anno scolastico 2016/2017“, un corposo documento dedicato a tutti gli ordini e gradi di scuola che prende il via dalla legge 107, che nelle sue indicazioni teoriche riconosce il valore pedagogico-didattico del teatro e in quelle operative l’attività teatrale come parte integrante dell’offerta formativa, forse non ce ne sarebbe neanche stato bisogno ma la mia formazione ne avrebbe subito quello che oggi sono sicura sarebbe stato un grave arresto.
Le varie esercitazioni allora proposte nel quadro di quelle possibili dedicate al mondo della scuola invitano gli insegnanti, tenendo conto della teoria transazionale di E. Bern (che individua gli “stati dell’Io” Genitore, Adulto e Bambino e inoltre gli ordini che i vari stati impartiscono l’uno all’altro quali “giochi psicologici”, decisi nella prima infanzia e atti a ripetere un “copione”, che consolida vecchie scelte comportamentali fino a renderle vincolanti e dunque limitanti “ sia il rapporto che la persona ha con gli altri, sia il rapporto che ha con se stessa”), ad elaborare un piano di intervento educativo rispetto alle relazioni disfunzionali che prescindesse, integrandola, l’attività didattica, dando modo all’alunno di poter potenziare le sue capacità espressive, traslabili poi in tutte le discipline, sostenute da quelle sommerse del famoso iceberg di Mario Castoldi maggio 2007.
GG frequentava la prima “elementare”, ometto appositamente di definirlo caso per non ridurre l’integrità di una persona a mera casistica da cui tenersi distaccati per tentare di fuggire da un transfert, che qualunque persona fornita di un minimo di sensibilità, sa essere inevitabile.
Non abbiamo opportuno stendere per G.G., un vero e proprio PDP (Piano Didattico Personalizzato), troppe erano le problematiche che il gruppo classe proponeva per soffermaci su di una bambino con una bella vivacità intellettuale, autonomo, capace di tempi di concentrazione adeguati e di rendimento didattico ottimo.
Allora perché occuparci di lui nel quadro delle relazioni disfunzionali?
Possiamo ipotizzare che l’ordine assimilato e interiorizzato da G.G. fosse “sii perfetto” e che la frase ricorrente si sia sentito ripetere e che continuava a ripetere a se stesso era “Potevi fare meglio”, non volendo ipotizzare niente era comunque la pragmatica della sua comunicazione che risultava disturbata dal suo bisogno di non sbagliare mai.
“Vi sono persone che “non possono sbagliare”. Anche nella scuola vi sono allievi che vivono con angoscia l’idea di commettere un errore, di essere derisi, di ricevere una critica o una valutazione negativa. Le loro vite hanno senso solo se sono perfette.”
La definizione si spinge oltre e continua dicendo “Le cronache hanno registrato suicidi di studenti a seguito di bocciature e suicidi di uomini di affari a seguito di fallimenti nella loro attività produttiva. Fare bene le cose diventa così più importante della propria persona, perfino della propria esistenza.”
Che angoscia!
L’imperativo categorico a cui G.G. rispondeva, non era così chiaro all’inizio dell’anno scolastico, anche perché il suo far bene ad ogni costo si è venuto evidenziando a mano a mano che le attività cominciavano a prender forma. Non uso forma a caso dato che per G.G la forma in cui svolgeva la consegnava diventava più importante del contenuto, ma di questo parleremo più avanti.
A settembre dunque quello che G.G. manifestava era l’incapacità di reggere le critiche rivoltegli dal gruppo dei pari e la paura, quasi mai motiva, di essere oggetto di scherno da parte dei suoi compagni accompagnata da un forte bisogno di accettazione.
Abbiamo cercato, usando la metafora del Berne, di assecondare la sua “fame di carezze” evitando di intervenire sull’evento che il bambino veniva raccontando in lacrime ma attuando una transazione (scambio di carezze nel linguaggio del Berne) che permettesse al bambino di rafforzare la sua autostima in modo da risolvere da solo, nel gruppo dei pari, il conflitto che era venuto a crearsi.
Personaggi: E = Educatore; B = Bambino
[1]
Lo scambio avviene tra l’io Bambino del bambino e L’io Adulto dell’educare che, per dirla alla Berne, insegna a “telefonare” all’io Bambino del bambino al suo io Adulto per trovare dentro di lui le risorse per risolvere la situazione da solo, interrompendo la transazione interna dell’io Genitore del bambino che agisce sull’io Bambino del bambino rimproverandolo per non essere stato perfetto e quindi di riflesso non essere riuscito a farsi accettare.
Le conseguenze di queste transazioni sono state che Giulio interrompeva il pianto per ascoltare interessato e la frequenza delle sue richieste d’aiuto in episodi simili a quello descritto si sono notevolmente ridotte.
Come avevo preannunciato l’imperativo “sii perfetto” a cui rispondeva Giulio è diventato più evidente di fronte alle consegne didattiche che autonomamente si rendeva in grado di svolgere mano a mano che imparava a “leggere e far di conto”. Diventava difficile per lui sopportare una cancellatura e accettare che l’errore fosse parte del processo di crescita. Chiedeva conferme constanti al suo lavoro e se le cose non erano andate come lui desiderava la comunicazione sull’accaduto era sempre in lacrime.
Le transazioni da parte nostra sono rimaste inalterate, l’oggetto era diventato l’errore.
A livello didattico, durante l’attività motoria, ho avviato un approccio al proprio corpo “senso” motorio mutuato dalla mia esperienza teatrale, volto a stimolare i canali sensoriali abitualmente trascurati e sottovalutati (la scuola, sembra privilegiare la vista e l’udito), come il tatto, e a recuperare, anche in assenza, registrazioni che il corpo ha compiuto utilizzando i sensi del gusto e dell’olfatto, tramite esercizi che ripercorrendo attività che il bambino ha svolto ne sappiano evocare il ricordo dei sensi. (come ad esempio il profumo delle foglie in autunno al parco, il gusto delle seppie coi piselli a mensa).
Escludendo il tatto e l’olfatto dal processo pedagogico, si nega la possibilità di sviluppare un’intimità e una vicinanza affettiva con e tra gli alunni, limitando i canali di comunicazione in rapporto all’apprendimento ed alle relazioni. Il tatto, è il vero punto di incontro fra i soggetti che possono esprimere volontà di possesso nell’afferrare o desiderio di tenerezza nell’accarezzare. “Mano che afferra e mano che accarezza costituiscono i due momenti estremi della possibilità di incontro interumano”[2]
Durante l’attività senso motoria l’intelligenza sensoriale, privata della transazione Genitore Bambino come istanza giudicante anche se autorevolmente condotta, ha ritrovato la sua capacità creativa sconfinando, partendo dalle proposte non verbali, spontanee dagli attori stessi, in interessanti improvvisazione libere nella creatività ma guidate nel tema proposto.
La libertà di proporre temi mi ha permesso, anche in questo caso di dare spazio alla disfunzione relazionale presa in considerazione improvvisando sulla sconfitta che per quanto fosse l’imperativo di G.G. è anche un argomento a tutto tondo che noi tutti conosciamo e sentiamo bruciare dentro seppure in misura diversa.
Durante una di queste improvvisazioni nella quale i bambini hanno combattuto a colpi di stoffe colorate e musica incalzante la loro battaglia, l’obbligo di G.G. era perdere, la lotta non riusciva a volgere a termine, la resistenza di G.G. a capitolare è stata intensa, ma invitato nuovamente ad assolvere al suo obbligo ha finalmente ceduto.
Quello che è successo è stato incredibile il vero pensiero divergente all’opere, qualcosa di ancestrale si è svolto sotto i miei occhi commossi, in tanti anni di lavoro con gli adulti non mi era mai capito di assistere ad un’espressione creativa del genere.
Come in una guerra epica i compagni della fazione di G.G. imprevedibilmente sono andati a recuperare il corpo inerte del loro eroe sulla scena della battaglia e sollevatolo lo hanno riportato nel loro accampamento e, mentre la fazione opposta festeggiava la sua vittoria, con tenerezza gli hanno reso gli onori a lui destinati riportando a nuova vita il loro “Achille” sfiorandolo con le stesse stoffe. Il mio unico intervento nella loro improvvisazione è stato quello di cambiare il ritmo dell’azione sostituendo la musica che poco prima avevano utilizzato per combattere con un’altra quieta, dolce.
Durante la condivisione verbale che di solito avviene in cerchio alla fine dell’esercizio, ma che in questo caso il suono della campanella ha protratto in aula, essendo necessario chiudere meta cognitivamente il lavoro perché non vada perso e non rimangano sospesi, G.G ha verbalizzato che la sconfitta non era così insopportabile, ha trovato, anzi, in questa, qualcosa che valeva la pena di essere vissuto, riportando come piacevolmente inattesa la sensazione che il suo corpo aveva registrato durante l’abbandono totale, la non resistenza, che aveva permesso ai suoi compagni di sollevarlo avendo lui ,dato loro, la sua completa fiducia.
Un altro intervento è stato compiuto, ancor più strettamente trasposto dall’esperienza teatrale, con la drammatizzazione del conflitto e la sua reinterpretazione in aula, in uno spazio che fin dall’inizio dell’anno è stato dedicato a questo e conosciuto dal gruppo classe come “il nostro teatrino”. Il tentativo era quello di dare una risoluzione al disagio e di rompere il “copione” di G.G., definito così non a caso da Berne, stimolando il Bambino ad accedere al proprio io Adulto per poter interrompere la coazione a ripetere tipica delle ingiunzioni Genitoriali. Le risposte a queste attività, propriamente teatrali, chiamate in letteratura simulazioni, giungono dal bambino transate ancora dall’io Bambino, quindi con quella rabbia che assomiglia più ad uno sfogo che alla presa di coscienza dell’io Adulto.
La speranza, nel caso di Giulio non disattesa, è che lo sfogo abbia una funzione per dirla alla Jakobson fatica o se preferite gestaltica e che a rispondere a questo primo contatto sia l’io Adulto del bambino capace in seguito di manifestarsi nel “vedere il buono” là dove prima c’era conflitto, creando una risposta alternativa allo stesso evento attivante, capace di so-stare nel conflitto in modo proattivo anziché reattivo e di uscirne con una nuova opzione comportamentale.
In pratica
- Primo esercizio: simulazione del conflitto avvenuto
- Secondo esercizio: improvvisazione sulla risoluzione del conflitto, trovare una risposta diversa al conflitto, la prima che viene e’ quella giusta, capace di vedere ciò che in esso c’e’ di buono[3]
G:G. rispetto a questo tipo di attività è stato sempre propositivo. Quando non era lui l’attore coinvolto è sempre stato preso dalla foga di suggerire il comportamento adeguato al superamento del conflitto.
Tutti questi interventi hanno portato G.G, la prima settimana di aprile di quell’anno scolastico, a reagire in modo diverso davanti ad un suo errore.
Durante una verifica di matematica, avendo compreso di aver male interpretato un esercizio è venuto da me motivandomi la correzione che vi aveva apportato, addirittura cancellando l’errore con una croce, e spiegandomi come avrei dovuto interpretarla in modo da non farmi trarre in inganno all’atto della correzione.
Questo suo comportamento è stato la prima possibilità di “agire” offrendosi un’ “opzione” relazionale concreta, che G.G si è regalato per poter uscire dal vincolo autolimitante dell’ordine da lui assimilato.
Il suo atteggiamento positivo è stato subito rafforzato agli occhi del bambino dalla condivisione, in sua presenza, dell’atto da lui agito con la mia collega.
Una piccola vittoria educativa, di un cammino che G.G, come ognuno di noi, dovrà compiere per tutta la vita, ma il primo passo verso la reintegrazione di un condizionamento che è tanto più grave quanto più sfugge alla consapevolezza della persona che ritiene “normale” il comportamento ripetitivo che adotta.
[1] Allora ero giovane e inesperta, oggi avrei usato PNL e problem solving: non avrei passato nessuna soluzione ma fatto domande maieutiche nel tentativo di far pervenire D. a soluzioni simile a quelle che gli ho proposto invece già preconfezionate, ma D. era un bambino capace di far buon uso anche di quelle.
[2] C. L. Restrepo in Il diritto alla tenerezza, La Cittadella, Assisi,
[3] l’esercizio di per se stesso contiene in se quelle abilità di problem solving e di messa in scena di una nuova pragmatica esperienza per il discente da cui, per fortuna, chi guida lo stesso è estraniato.