“La disposizione dei banchi deve cambiare con le materie. Roger Johnson, 1975.”
15/01/2017 di Simona Dalloca
“Il modello si chiama “Aula 3.0”: le tecnologie digitali e gli arredi si muovono in stretta relazione con gli spazi dell’aula, che vengono modificati ogni volta in base alle esigenze didattiche. Il modello Aula3.0 è la classe del futuro? Possiamo affermare che il futuro è già iniziato.”
La sensazione è stata come quella che ho avuto nel 2000 quando ho avuto la fortuna di preparami al concorso per la scuola primaria e dell’infanzia con il mio insegnante e mentore Vito Piazza. Pensavo: “se la scuola è quello che è raccontato nei suoi libri, è una “figata”, voglio farne parte!”
L’entusiasmo è scemato, quando per la prima volta in vita mia ho sentito forte il desiderio di trasformare l’esercizio dell’autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, sperimentazione e sviluppo (DPR275/1999), tutte belle parole di cui mi ero riempita la bocca studiando, nella voglia di tagliare le ruote della macchina della mia esaminatrice al concorso per la scuola primaria, che per tutto l’esame si era invece riempita la bocca di parole che io recepivo solo nel significato “tanto ti sego!”, come si diceva a Milano, e di espressioni della faccia che come un gran bel fumetto a intermittenza segnalavano: “Eccone un’altra che pensa di cambiare il mondo, adesso glielo faccio vedere io come si cambia”.
Non riuscì a bocciarmi, passai. Avevo degli scritti ottimi, “in teoria” il mio grande mentore mi aveva preparato bene, nonostante la mia dislessia, compensata allora solo dalla mia voglia di riuscire cercando strade diverse dagli altri.
Quando feci gli esami per la scuola dell’infanzia pochi giorno dopo ero talmente demoralizzata che mi sedetti e chiesi: “Cosa volete sentirvi dire?”.
Nella scuola dell’infanzia fui chiamata al mio incarico un anno prima che in quella primaria. L’attualità e la modernità degli Orientamenti 1991, avevano avuto più tempo per far breccia nel cuore dei miei esaminatori che si erano già sensibilizzati ai cambiamenti sostanziali che lavorare per campi di esperienza significa.
Come si fa ad affermare che il futuro è già iniziato, se solo ieri parlando con un mio collega rassegnato, seppure impegnato nell’innovazione, mi sono sentita dire: “l’innovazione va lasciata a chi ci crede”, sottintendendo che avremmo anche per quest’anno dovuto andare avanti soli, anche se insieme, per la nostra strada.
La dicotomia più assurda si raggiunge quando la forma, il contenitore, è già ammodernato per contenere tutte le innovazioni che le leggi descrivono e prescrivono, ma le risorse umane non hanno agito i cambiamenti interni necessari per renderle sostanziali.
Si assiste dunque a uno strano fenomeno secondo il quale la novità non cambia la struttura del fare, ma si aggiunge come un nuovo compito a quello che è recepito dai docenti come il loro dovere irrinunciabile, così da oberarli di altre cose da confezionare oltre a quelle di cui si sentono imprescrittibilmente responsabili.
Il compitò di realtà non diventa così un modo con cui esperire il conoscibile nei tempi di realizzazione che occorrono e che possono in esso arricchire i discenti di responsabilità e abilità in azione, ma un’attività in più, per dimostrarsi al passo con i tempi. Quanti ne bastano in un anno per essere lasciati in pace, levarseli dal groppone e finalmente riprendere a procedere con il programma?
Eppure ci si ritrova ad essere felici anche solo del tentativo di uniformarsi ad una forma che lascia la speranza che un giorno possa trasformarsi in sostanza, se è vero come è vero che il cambiamento comincia dall’ambiente che cambia i comportamenti, le capacità e poi finalmente le convinzioni e valori.
Ci si rende comunque conto che manca una formazione, che almeno sensibilizzi i docenti alla possibilità di liberarsi dall’ossessione della trasmissione del programma, nella “nuova” convinzione che la metodologia della ricerca, che porta alla realizzazione di un compito di realtà, sia di per se stessa non solo trasmissiva della conoscenza ma anche capace di ricostruirla e di reinventarla, generando abilità e competenze che oltre a garantire il famoso Successo Formativo di ognuno, possano anche essere misurate all’interno di quel circolo virtuoso della valutazione che va ad implementare ciò che non è ancora stato com-preso, nel senso di portato con sé.
Secondo le linee guida la sperimentazione coinvolge tutte le discipline e diventa una metodologia didattica innovativa perché consente agli alunni di acquisire il “sapere” attraverso il fare trasformando la scuola nel posto in cui si “impara ad imparare” e dove tutte le aule possono diventare laboratori.
(Linea guida settembre 2012 pag 58)
L’impianto dei nuovi ordinamenti richiede che le attività laboratoriali vengano integrate nelle discipline da progetti interdisciplinari fondati sulla “comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale.” (Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008)
Questa formazione per i docenti dovrebbe dunque andare nella direzione degli interventi che la politica scolastica e i nostri legislatori hanno inteso fornire agli insegnanti per cambiare tutto il processo di apprendimento a cominciare dal 1976 e che dovrebbe fornire competenze per formarsi lungo tutto l’arco della vita.
Anche nella formazione per gli insegnanti, come in quella dei propri alunni, non dovrebbe più trattarsi di acquisire una conoscenza specifica come fatto prioritario, ma la priorità dovrebbe dunque essere data alla volontà di suscitare fiducia in sé stessi, la conoscenza di sé, le attitudini sociali e pratiche e il problem solving, tutte quelle life skils che dovremmo essere in grado di insegnare.
Non mi interessa un’“Aula 3.0” mi basterebbe che la legge 107 del 2015, che rende la formazione per gli insegnati obbligatoria, mi permettesse di non dovermi più confrontare con colleghi che ancora hanno la convinzione che vi sia una disposizione dei banchi che tende ad un’aula immutabile, perfetta ed immaginaria, per un gruppo classe che tale dovrebbe essere e che nel qui e ora non esiste.
Vorrei poter smettere di discutere sul fatto che l’aula debba essere rimessa a posto, come se fosse stabilito per legge qual è il posto giusto. Vorrei che finisse la pretesa da parte di colleghi su altri di dover ripristinare a fine lezione una situazione precedente dei banchi, come se davvero ve ne fosse una unica, corretta e preferenziale a cui tutti debbano conformarsi.
Vorrei che ciò che sosteneva Roger Johnson, intorno al 1975, all’interno della cornice concettuale del Cooperative Learning, “che la disposizione dei banchi debba cambiare con le materie, perché ciascuna richiede un diverso ambiente di apprendimento” diventi innovazione adesso, spendibile nel 2016 da tutti i docenti ora.
Gli arredi si muovono in stretta relazione con gli spazi dell’aula, che vengono modificati ogni volta in base alle esigenze didattiche del docente che vi entra e dallo stato emotivo degli alunni che la abitano, anche se l’Aula non è 3.0. (La pedagogia delle classi scolastiche e l’analisi delle personalità collettive di gruppo, Ed. PREPOS Collana Counseling Scolastico)
E ancor più… l’attesa della modifica della disposizione degli arredi da parte dei discenti nella posizione richiesta per l’attività da svolgere, non è da considerarsi una perdita di tempo, ma parte di quella educazione alle attitudini sociali, pratiche e di problem solving, che dovremmo insegnare, perché i nostri ragazzi possano apprendere la competenza di organizzarsi in autonomia.