Il potenziale salvifico dell’educazione, ovvero Gestione della classe e problematiche relazionali di Simona Dalloca

17/02/2020 rilettura e montaggio da Amore, coscienza e psicoterapia di C. Naranjo

Il potenziale salvifico dell’educazione

Mi sento di condividere quanto espresso da C. Naranjo rispeto al mio lavoro come formatrice sia con i piccoli che con i grandi: “Quando lavoro come professionista nel settore della formazione professionale insisto molto sul fatto che il mio modo di farlo non e di porre in rilievo nozioni teoretiche o metodi, ma di offrire alcune esperienze trasformatrici, confidando che stimolare lo sviluppo umano sia più importante per la capacità di aiuto delle persone che il tipo di informazioni tecniche che si trovano nei libri.”

Nel 2007 C. Naranjo in Cosas que vengo diciendo propone tutto un excursus storico/sociale/religioso/trans personale che si conclude auspicando che: “si dovrebbe, per così dire, trasferire la tecnologia dalla terapia all’educazione, anche se poi le cose non verrebbero chiamate nello stesso modo.”

Blasfemia… Eppure oggi ci si forma, motivo per me di grande ottimismo, chiamandola appunto in un altro modo: “Gestione della classe e problematiche relazionali”.

Formazione avvalorata dalle nuove competenze laddove al punto 2.2 la competenza chiave imparare ad imparare esplicita la necessità di possedere competenze “emotive” personali e sociali, capacità ritenute essenziali per una prestazione efficace, poiché il 67% “due su tre” delle competenze necessarie a portare a termine un compito sono di natura emotiva e dunque alla  base  di  tutte  le  principali  sfere  del nostro vivere.

Implementare le Q.E. in discenti e formatori è possibile, sostiene Goleman,[1] proprio utilizzando quella tecnologia della terapia che rende abili a formulare domande verso i propri innumerevoli sé e quelli degli studenti, capaci di generare degli insight significativi, tali proprio perché appropriati ad indurre cambiamenti funzionali e permanenti nei comportamenti personali e sociali.

E dunque ritengo valga la pena rileggere i passi salienti proposti da Naranjo, e liberamente rimontati secondo la mia personalissima visione di quel che lui ha scritto in tempi non sospetti in Amore, coscienza e psicoterapia[2],  per regalarci una base solida per continuare a praticare qualcosa che all’inizio della mia formazione come insegnante era solo un sentire timoroso di pochi.

[1] Daniel Goleman, Intelligenza Emotiva, Rizzoli, Milano 1996.

[2] C. Naranjo, Amore,coscienza e pscicoterapia, Xenia Edizioni, 2011

Premesse.

L’organizzazione della società: Matristica, Patriarcale e Filiale.

Oggi si è passati dal termine matriarcato ad usare il termine «matristico», avendo capito che il predominio del femminile non si esprime come «dominio della donna» , visto che il dominio è maschile, ma come il potere del gruppo, il primato delle relazioni, il diffondersi dello spirito comunitario, ovvero i rapporti legati al «prendersi cura».

Si può dire che se l’eccesso del patriarcato è la tirannia di determinati individui, quello delle culture matristiche è la tirannia del gruppo.

Ed è comprensibile, inoltre, che il dominio maschile che s’instaurò circa cinquemila anni fa abbia avuto come conseguenza un predominio della  competenza sulla collaborazione e dei valori guerrieri su quelli amorevoli.

Naturalmente si può pensare che un giorno arriveremo a un equilibrio tra entrambi questi ordini di valore, ma volendo immaginare la piena espressione del nostro potenziale umano dobbiamo considerare anche una terza componente della nostra natura o psiche:  quella filiale, che corrisponde più o meno alla nostra mente istintiva e fu sicuramente la prima a farsi sentire nella nostra vita collettiva, prima di diventare sedentari e matristici.

Prima della cultura propriamente detta, che sorge nel Mediterraneo matristico durante l’epoca che possiamo indicare come quella del paradiso terrestre biblico, eravamo «animali darwiniani» e vivevamo in un mondo nel quale valeva davvero la sopravvivenza del più forte.

Solo circa trentamila anni fa, con l’apparire dell’Uomo di Cromagnon, comincia l’essere umano propriamente detto, con una vita religiosa, un’arte e un’agricoltura.

Si può dire che questa è l’epoca alla quale si applica il simbolo del soffio dello spirito in Adamo, che allude alla trasformazione dell’animale in umano.

Si può dire perciò che siamo passati storicamente da un filiarcato a un’epoca matristica e poi al patriarcato, e per quanto ognuna di queste tre forme squilibrate abbia rap­presentato un necessario adattamento in un dato perio­do, ognuna è poi diventata obsoleta.

L’organizzazione della mente umana: i tre cervelli

Siamo esseri tricerebrati.

I neurofisiologi lo mostrano chiaramente: abbiamo un cervello rettiliano, istintivo; un cervello amoroso, mammifero, che entra in gioco nel particolare legame madre-figlio ed è il fondamento dell’amore benevolo; e un cervello propriamente umano, il neocortex, che guarda al cielo più che alla terra, in quanto è capace di concepire ideali e amare valori transpersonali come la giustizia, la verità, la bellezza, la vita stessa e il divino.

Essendo dotati di tre cervelli — istin­tivo, emozionale e intellettuale — si potrebbe pensare che siamo dotati anche di una sorta di equilibrio tra le nostre tre facoltà; ma è noto che la società patriarcale ha portato con sé il predominio della ragione sull’emozione, dello sfruttamento sulla cultura e dell’aggressività sulla tenerezza.

Educare i Tre cervelli

Ma se il male collettivo fondamentale è l’organizzazione patriarcale della mente e della società, e se stiamo educando solo uno dei nostri cervelli pur avendone tre, ritroveremo salute e pienezza imparando a ritornare tricerebrati armoniosi e completi. Forse abbiamo continuato a governare il timone della nostra società tra computer e pareri di economisti e altri esperti, mentre il livello di complessità della vita non si presta a questo tipo di cose.

E se siamo dove siamo perché siamo chi siamo, dobbiamo anche pensare che ci ritroviamo il mondo che ci ritroviamo perché abbiamo l’educazione che abbiamo.

Eppure ritengo che la mia proposta di correggere questa situazione tramite lo sviluppo delle nostre facoltà meno sviluppate non sia affatto utopistica. Anche se tra le tre «personalità interiori» che coesistono dentro di noi quella paterna ha messo in ombra l’espressione di quella materna e del nostro bambino interiore, l’esperienza terapeutica ci ha dimostrato che possiamo fare molto al riguardo.

La confessione – Tela di G. Molteni – 1838

Psicoterapia e Religione per liberare figlio/cervello rettiliano e madre/cervello limbico.

In primo luogo, e anche se non si tratta del suo linguaggio abituale, la psicoterapia propone diverse possibilità in merito alla liberazione del bambino interiore; i suoi in­terventi si orientano sulla base della proposta freudiana originaria di liberare l’istinto e di superare una situazione psicologica generalizzata, in cui il principio del piacere è stato implicitamente demonizzato. Sappiamo che lo stesso Freud, che ha dato avvio alla psicoterapia, non era un ottimista, e che nella sua ultima opera dimostra che l’incompatibilità tra istinto e civiltà costituisce una impasse insuperabile.

Sono stati i suoi seguaci, come Reich e Fromm,[3] ad affermare l’idea della bontà intrinseca dell’essere umano, che impera nell’ambiente umanista di oggi. Anche se Freud non è arrivato a crederci, tuttavia la psicoterapia è stata effettivamente un’attività liberatoria e in particolare un processo di liberazione dello spirito dionisiaco.

Mi piace riscattare la proposta di Nietzsche sull’argomento. È stato un grande critico sociale, come sappiamo; e direi che è giustificato considerarlo un apostolo di Dioniso,[4] per la sua eloquente insistenza sul fatto che c’è bisogno di tornare allo spirito dionisiaco come antidoto alla fossilizzazione della società cristiana in Occidente.

Dovremmo dunque riscattare il nostro cervello arcaico rettiliano che è stato culturalmente demonizzato. L’immagine stessa del demonio è stata ricalcata su quella di Dioniso, con le sue corna e zampe caprine, che alludono entrambe all’animalità, ma un’animalità sacra che possiamo capire a stento dopo secoli di denigrazione del corpo. Tale denigrazione non è intrinseca alla spiritualità, ma risultato di una contaminazione culturale. La società nella quale si è impiantato il cristianesimo ha finito per trascinare lo spirito cristiano verso questo equivoco sull’ascetismo, che in origine era solo un’efficace pratica spirituale e non un valore morale né tanto meno una negazione della sana animalità che è parte della nostra natura.

Sembra quasi che abbiamo voluto volare troppo in alto, e diceva bene lo Zarathustra di Nietzsche: ci siamo talmente preoccupati di non peccare contro il cielo, che non ci siamo resi conto di quanto stavamo peccando contro la terra.[5]

Ma passiamo ora a considerare lo schiacciamento che il nostro spirito patriarcale aggressivo ha comportato per la nostra parte materna, non meno bisognosa di liberazione. Se la libertà istintiva fa parte della salute mentale e quindi della felicità individuale, la capacità amorosa, strettamente legata al cervello limbico o medio, è indispensabile per la salute sociale e una felice convivenza. Ma sappiamo che l’amore non è una priorità in una società razionalista orientata al potere; e finisce sempre per essere messo in ombra, anche quando si formulano i più alti ideali, sia rispetto alla società sia per l’educazione. Si può riconoscere che la parola «amore» è un vero e proprio tabù, un termine che si può usare nell’arte, nella letteratura e nella religione, forse, ma non nella scienza, che il mondo accademico valuta come criterio di verità.

È chiaro che sarebbe il colmo scacciare l’amore dal linguaggio cristiano, quando il comandamento centrale del cristianesimo è quello che tutti conosciamo.[6]

Ma in psicologia si preferisce parlare di «rinforzo positivo» o «bisogno di relazione», e siamo così immersi in un mondo controllato dall’intelletto che non ci rendiamo conto del tradimento dell’amore che la vita umana, nel modo in cui è vissuta, comporta a ogni passo.

Gli educatori spesso sono persone con una forte vocazione materna. Che siano uomini o donne, li anima qualcosa che è come il prolungamento dello spirito materno. Ma anche se l’attività di educare costituisce una forma di maternage,[7] l’andamento dell’educazione è soggetto in primo luogo alle decisioni dei politici, in genere internazionali e di sesso maschile, che non sanno direttamente come stanno le cose.

Non avendo questa vocazione o sensibilità propria del vero educatore, pensano in termini di rendimento e di futuri benefici economici, e ragionano più con i computer che con l’intuito e la sensibilità.

Se vogliamo trasformare il mondo dobbiamo trasformare le persone e non possiamo sperare che ciò sia possibile solo con la religione o con la psicoterapia. Sono sistemi minoritari, che presuppongono che le persone provino un forte desiderio di cambiare per sobbarcarsi i grandi sacrifici che la trasformazione comporta.

Per cominciare a nuotare controcorrente e salvarsi, o per pulirsi l’anima e sistemare il proprio mondo interiore, una persona deve compiere tali sforzi che sono poche quelle che arrivano alla fine del cammino o anche solo a metà.

Si dice, in teoria, che per un mondo migliore ci vuole un essere umano diverso e che per una società migliore ci vuole una trasformazione individuale, e si comprende che senza questo fattore umano salvifico gli scenari futuri di una previsione puramente meccanicista si presentano catastrofici; ma nella pratica la coscienza è ciò che più viene rimandato.

[3] Pinchas Fromm (1900-1980), psicoanalista, sociologo e filo­sofo tedesco. Tra le sue opere principali: Avere o essere?, Mondatori, Milano 2001; Marx e Freud, Il Saggiatore, Milano 1998; L’arte di ama­re, Mondatori, Milano 1995; Fuga dalla libertà, Mondatori, Milano 1994.

[4] Dionisio, figlio inlegittimo di Zeus e di Semele è una divinità della mitologia greca, dio del vino e della agricoltura.

[5] Nella Prefazione al libro Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Nietzsche scrive: «Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio; ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabi­le più del senso della terra!» (Adelphi, Milano 1968, pag. 6, tradu­zione di Mazzino Montinari).

[6] «Ama il prossimo tuo come te stesso»

[7] 1l termine «maternage» rimanda al ruolo materno e caratterizza le funzioni di accudimento e cura tipiche della madre, anche se svolte da altre persone che ne fanno le veci.

Formare la coscienza, armonizzare i tre cervelli, è compito dell’educazione ed è ciò che implicitamente fa la psicoterapia.

Parlare di coscienza significa parlare dell’unificazione della nostra psiche frammentata, e la comprensione che ci offre la neurologia attuale rispetto ai conflitti interiori tipici della nevrosi (concetto importante, di cui, seppur vecchio, non conviene sbarazzarsi) va oltre la nozione freudiana delle tre istanze psichiche.[8] Ciò che oggi è ormai dato per scontato è stato profeticamente formulato all’inizio del ventesimo secolo da Gurdjieff,[9] con la cui scuola ho avuto contatti in gioventù. In quella sorta di romanzo fantascientifico da lui intitolato I racconti di Belzebit a suo nipote[10]parlava già di esseri tricerebrati. Belzebù è in viaggio di ritorno verso il centro assoluto dell’universo, dopo aver completato la propria missione (e già gli stanno crescendo le corna, segno che è giunto alla maturità), e spiega al nipote quanto è stato triste contemplare quegli esseri di un lontano sistema solare, un luogo così oscuro dell’universo.., dove in quel piccolo pianeta chiamato Terra vivono e soffrono dei miserabili esseri dotati di tre cervelli, che non riescono ad armonizzarli.

Sappiamo che in effetti il nostro cervello è un organo tripartito, sia dal punto di vista embrionale che funzionale, e quanta ragione avesse Gurdjieff nella sua proposta di equilibrare la nostra emozione, il nostro intelletto e il nostro istinto.

Mi pare sia questo che implicitamente fa la psicoterapia e che dovrebbe proporsi l’educazione.

E basta enunciarlo per rendersi conto che, per riuscirvi, dovremmo dare assai maggiore rilievo alla formazione amorosa.

Non solo alla coscienza emozionale, ma alla rimozione di ciò che ostacola l’espressione della parte più essenziale del nostro essere, la cui intrinseca bontà si vede ostacolata da tutta una serie di demoni interiori.

[8] Io, Es e Super io

[9] George Ivanovitch Gurdjieff (1866?-1949), filosofo, scrittore e mistico di origine greco-armena, il cui insegnamento è noto come  “Quarta via”.

[10] George I. Gurdjieff, I racconti di Belzebù a suo nipote, Neri Pozza Editore, Vicenza 1999

Educare i tre cervelli all’armonizzazione è una guerra contro l’ego a favore dell’autostima.

René Magritte, Décalcomanie

Riuscirvi richiede una specie di guerra interna contro l’ego, la demolizione della personalità condizionata e il voltare le spalle a tutto ciò che ci è abituale e noto. Credo che ciò che la psicoterapia ci ha permesso di capire può essere implementato in modo preventivo e massiccio dall’educazione del futuro.

E bisogna che tale educazione del futuro si separi dal proprio padrone autoritario e si metta a occuparsi degli interessi e dei sentimenti del bambino, perché i giovani possano cominciare a sviluppare quell’autostima di cui tanto si parla ma che tanto scarseggia nel mondo.

Come si può provare autostima se si pensa a «dirozzare» i bambini, ancora nello spirito che la letra con sangre entra (lo studio entra con il sangue)?[11]

Gli alunni non vengono più fustigati, ma psicologicamente regna ancora il disprezzo, e il clima nelle aule è quanto mai serio e fondato sulla disciplina.

Questo è l’imbuto per mezzo del quale si cerca di far passare l’informazione, senza offrire ai giovani l’esperienza di essere ascoltati e apprezzati e che i loro gusti siano presi in considerazione.

[11]Si tratta di un proverbio che si riferisce al modello educativo basato sulle punizioni corporali inflitte agli alunni che non studiavano. Titolo di un famoso quadro del pittore spagnolo Francisco de Goya y Lucientes (1746-18128), conservato al Museo de Zaragoza in Spagna.

Educare esseri completi è educare all’essere.

Rogers: Il bambino al centro

Io propongo sempre che l’educazione abbia un elemento analogo a quello della terapia rogersiana,[12] ovvero sia «centrata sul cliente». Il che vuol dire che si deve attuare un’educazione centrata sul bambino, nella quale i suoi interessi contino e non si uccida la spontaneità, non si castighi la curiosità e si preservi la voglia di apprendere. Tutto ciò che viene trasmesso con l’imbuto lascia il tempo che trova, serve un po’ e poi impedisce la vera educazione, il vero apprendimento. Apprendere vuol dire cambiare.

Scrivere, leggere e far di conto non sono l’educazione, sono i suoi strumenti, non i suoi obiettivi.

Il cambiamento è in atto: le resistenze

Nonostante le istituzioni o la burocrazia dei diversi paesi, con le loro esigenze di esami interferiscono con le priorità dello sviluppo, molte volte, un po’ qui un po’ là, ci sono dei veri educatori, e anche delle scuole che vogliono fare cose innovative, ma è la comunità stessa, l’inerzia sociale dell’ambiente, che si trasforma in un ostacolo rispetto alla necessaria riforma.

I genitori dicono: «Perché a mio figlio non insegnano le cose importanti? Non va ancora bene a scuola, non prende buoni voti nelle cose elementari e già lo distraggono con queste cose ricercate».

Quel che ci vuole non è semplicemente un’educazione che proponga una certa materia o un’altra, come fosse una medaglia o un segno di modernità, ma che si fondi sul principio che educare vuol dire favorire la completa fioritura dell’essere umano, il che significa educare alla trasformazione.

Educare esseri completi è educare all’essere, non solo al fare.

Essere è un vissuto che solo una persona completa può sperimentare.

Credo che tutti i nostri mali derivino dalla nostra incompletezza e tutta la psicopatologia può essere nuovamente interpretata a partire dalla carenza di essere.

Freud interpretava la nevrosi come un blocco delle pulsioni o degli impulsi.

Io credo che sia più profonda l’interpretazione esistenziale secondo la quale abbiamo un anelito di riempire un certo buco e sentiamo un vuoto. Lo riconosciamo appena perché la cultura non ha un nome per questa… direi «ansia metafisica». Non avendolo, riempiamo il vuoto con tutta una serie di sostituti. Chi con l’intensità delle droghe e il rock’n’roll, con la moto e con il  vivere pericolosamente; chi con la fame di sapere e così diventa un grande erudito, chi con la brama di applausi e chi con la dipendenza dall’amore. Ma sono tutte acque che non estinguono la sete, dei modi per riempire questo vuoto centrale con qualcosa che non può farlo, perché può essere riempito solo con il sentire se stessi ed essere consapevoli della propria esistenza.

Educare all’IO SONO tutti e 3 i cervelli.

Ma «io sono» non è qualcosa che può essere detto solo da una parte isolata del nostro cervello. Lo può dire soltanto l’essere intero, e nel momento in cui lo dice risuona con qualcosa che è più grande dell’umano in quanto tale. Quando Mosè domanda a Dio che cosa deve rispondere se gli chiedono chi ti manda?», Dio si identifica con la coscienza dell’essere rispondendo «di che ti manda Io sono».[13]

Credo che una proposta educativa soddisfacente non possa non includere, prima di tutto, questa possibilità umana: la potenzialità di risvegliare lo spirito, al di là del pensiero e anche delle emozioni: quella dimensione contemplativa che tocca il vissuto dell’essere, che passa innanzitutto dal riconoscere quella sete fondamentale che «non è di questo mondo» e anche dal disidentificarsi dalla propria personalità, il nostro Io apparente, che deve essere trascesa, così come la crisalide viene lasciata indietro dalla Farfalla.

[12] Carl Ramson Rogers è stato uno psicologo statunitense, fondatore della terapia non direttiva e noto per i suoi studi sul counseling e la psicoterapia (1902-1987). Tra le sue opere Client-Centered Therapy: Its Current Practice, Implications and Theory. London: Constable, 1951.

[13] ” La rivelazione Io Sono si trova nell’Esodo, secondo libro della Bib­bia: e dirò loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi, se essi mi dicono Qual è il suo nome?, che risponderò loro?” Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono”. Poi disse: “Dirai così ai figli d’Israele: L’Io sono mi ha mandato da voi”» (Es 3,13-15).

L’educazione eccentrica.

Se uno fa un progetto di questo tipo, che è un po’ come dire «servi il regno dei cieli, e tutto il resto si sistemerà», si ritroverà a essere definito un eccentrico, perché oggi è in voga la solidità del concreto e del pratico. Come dicono gli inglesi, Aake care of your pennies and your pounds will take care of your heirs and your banisters»,[14] ovvero «curati dei dettagli e delle cose concrete prima di tutto». È la moda dei nostri tempi di globalizzazione e privatizzazione, nei quali la qualità dell’educazione viene ritenuta un investimento ed è strano occuparsi di una cosa tanto vaga come la profondità umana, o come la vogliamo chiamare.

Se uno ipotizza questa proposta di un’educazione per l’essere, si ritroverà di certo ad affrontare diversi inconvenienti.

In primo luogo, dato che la proposta presuppone una educazione affettiva, qualcuno obietterà che si avvicina troppo all’ambito terapeutico.

Ma nell’educazione tradizionale domina un implicito tabù: gli educatori non vogliono che la terapia entri nella loro sfera, ed è facile immaginare che se i bambini a scuola cominceranno a parlare di ciò che avviene in famiglia, neanche ai loro genitori piacerà che «lavino i panni sporchi fuori casa». E i professori non saprebbero come gestirlo.

E se fossero invitati a una maggiore sincerità, chi avrebbe la capacità di fronteggiarla, perché non si trasformi in caos?

Ci vorrebbe una cultura psicoterapeutica, oltre a una comprensione istituzionale che consenta di superare tale tabù riconoscendo la rilevanza profonda che ha la salute emozionale nell’educazione. E si dovrebbe, per così dire, trasferire la tecnologia dalla terapia all’educazione, anche se poi le cose non verrebbero chiamate nello stesso modo.

La fiducia nell’educazione di  C. Naranjo

Ho fiducia che nell’ambito della mal pagata e svalutata professione degli insegnanti giaccia un potenziale salvifico che supera quello delle religioni e della psicoterapia. Queste infatti possono aiutare solo individui isolati, ma non creare il cambiamento di massa che richiede la trasformazione della società. Ma perché questo potenziale dell’educazione diventi concreto è necessario che essa integri le risorse elaborate finora dall’attività terapeutica e dalle tradizioni spirituali.

Il mio lavoro costituisce un apporto a questa integrazione, e spero che possa risultare di stimolo per il grande compito che propongo, di dare all’educazione il suo valore di impulso allo sviluppo umano, individuale e collettivo.

[14]Letteralmente: “Abbi cura dei tuoi centesimi e le tue sterline si prenderanno cura dei tuoi eredi”.